"Nella notte dal 22 al 23 del passato mese 70 prodi, comandati da Enrico e Giovanni fratelli Cairoli, ardivano pel Tevere gettarsi fin sotto le mura di Roma, col magnanimo pensiero di portar soccorso di armi e di braccia al popolo romano combattente. A Ponte Mollo non vedendo i segnali convenuti, sostarono. Giovanni Cairoli, spedito in ricognizione, riferiva cessata la pugna in Roma. Ritirarsi o morire. Quei generosi preferirono la morte. Si asserragliavano in S. Giuliano, e quivi uno contro quattro, armati di soli revolvers, questi prodi oprando miracoli di valore, di gloria imperitura, coprirono un'altra volta di gloria il nome italiano. Assaliti da due compagnie di zuavi e di antiboini, intrepidamente sostennero l'urto. La pugna fu accanita e sanguinosa, ma davanti a quel pugno di valorosi i mercenari del papa ripiegarono: molti i caduti dei valorosi, fra i quali i Cairoli e l'Enrico morto. Volontari! Tutte le volte che vi troverete a fronte dei mercenari pontifici, ricordatevi degli eroi di S. Giuliano. Garibaldi" Il 2 novembre 1867 da Monterotondo Giuseppe Garibaldi così parlò ai suoi soldati per infondere loro il "patrio sentimento", prima di accingersi ad un ennesimo tentativo di conquista di Roma, che si sarebbe concluso ancora una volta con un insuccesso. Oltre al discorso su riportato Garibaldi si rifece ad alcuni dei più grandi eroi della storia classica: giunse infatti a dire "La Grecia ebbe i suoi Leonida, Roma antica i suoi Fabi, e l'Italia moderna i suoi Cairoli, colla differenza che con Leonida e Fabio gli eroi furono trecento: con Enrico Cairoli essi furono settanta, decisi di vincere o morire per la libertà italiana." Dopo esserci soffermati sulle esaltazioni e sui sentimenti di uno dei più importanti patrioti italiani dell'Ottocento, è doveroso approfondire la straordinaria impresa appena ricordata. I settanta, dopo esser partiti da Terni la sera del 20 ottobre, fecero una breve sosta a Cantalupo dove il capitano (Enrico Cairoli) riordinò i suoi uomini e impartì le ultime istruzioni. Questo è l'ordine del giorno di Enrico Cairoli che il suo aiutante Ermenegildo De Verneda lesse ai volontari schierati nella chiesa di Cantalupo: "Siamo vicini al momento in cui dobbiamo provare di saper fare. Per riuscire, è indispensabile organizzarci, metterci cioè nelle condizioni in cui sia possibile la maggior concentrazione delle nostre forze conciliabile con la massima divisione di esse e ciò pel terreno che dovremo oltrepassare. Ho stabilito quindi che la nostra piccola banda sia composta nel seguente modo: (...). Amici, sento ancora il bisogno di ricordare che l'impresa è difficile, più che arrischiata, disperata. Conosco la vostra bravura. Non vi ricordo i pericoli e le fatiche somme che dovremo sopportare. Se alcuno di voi, per una forza più potente di quella del volere, non fosse in grado di seguirci, lo dica francamente; poiché avrebbe il rimorso di danneggiare l'operazione. Chi è indisposto od avesse piagato i piedi non deve celarlo, giacché guai se continuando, giunti in altro terreno, dalla forza del male fosse impedito di continuare. È necessario scelga un'altra via, e noi lo saluteremo con un addio di fratelli, ed un arrivederci a Roma. Alle quattro si marcia. Il signor Stragliati è addetto ai carri." In seguito, con un barcone carico di 300 fucili e con due barchette (a proposito del numero di barche con cui si mossero, sono state riscontrate discordanze tra gli storici: alcuni affermano che fossero tre, altri due) discesero il Tevere sino all'Acqua Acetosa presso i Parioli, e, sbarcati la notte dal 22 al 23 ottobre, presero posizione sul poggio di Villa Glori, e attesero da Roma i segnali che dovevano precedere il loro ingresso in città, mentre gli amici che si trovavano in questa non riuscivano ad avvertirli subito che l'insurrezione non era riuscita e che sarebbe stata conveniente una rapida ritirata per aspettare un nuovo tentativo. Invece furono attaccati da preponderanti forze pontificie: Enrico cadde nel combattimento accanto al fratello Giovanni che venne trasportato all'ospedale Santo Spirito e tenuto a disposizione dell'Autorità militare. E Giovanni il 25 ed il 26 ottobre scrisse due lettere dall'ospedale a Giovanni Cadolini, amico di famiglia e ad Enrico Minoia, suo amicissimo, pregandoli di informare la famiglia. Nella prima descrive brevemente lo scontro e la morte del fratello "...La scongiuro a voler fare in modo che la triste novella suoni il meno possibile cruda al carissimo Benedetto e alla mia Mammina; perciò scrissi a Lei..." E nella seconda scrive: "Il dì 23 noi eravamo accampati a due miglia da Roma nel numero circa di 70 su un monte posto a cavaliere del Tevere; verso il crepuscolo fummo attaccati negli avamposti che al mio comando erano affidati. Il comandante, l'Enrico nostro carissimo mi diede l'ordine di ripiegare verso la base; ciò che si fece in buonissimo ordine dalla mia sezione; ad un certo punto di caricare alla baionetta; tutta la sezione fu in moto a quell'ordine collo slancio che ti lascio immaginare; in pochi momenti ci trovammo nella mischia corpo a corpo. Io ed Enrico nostro cademmo insieme, intorno a noi Bassini, Mantovani, Papazzoli (Papazzoni), restammo feriti, ma liberi nel campo. Pochi momenti dopo il fratel nostro spirava, tanto erano gravi quelle due ferite che alla faccia ed al petto, presso alla spalla destra, aveva riportate; le ultime parole furono per i doveri del cittadino, del figlio, del fratello, dell'amico; terminò con queste: - Saluta Mammina, Benedetto..., Minoia. Mio gran dolore fu di non poterlo soccorrere come n'aveva immensa smania; le mie ferite non mi permisero che di dargli al capo debole appoggio del mio braccio destro. Avvenuta la perdita immensa, io pure mi credei all'ultimo: la perdita grande del sangue, benché le mie ferite fossero leggere, m'aveva cagionato un affanno straordinario, tentai tre volte d'alzarmi, ma sempre invano. Alfine pensando a Mammina, a Benedetto, a te, mio diletto amico, trovai forza sufficiente. Riescii a far barcollando qualche passo fino ad una vicina cascina ove ebbi modo di stagnare il sangue e di riposare alquanto. Debbo tagliar corto onde poter consegnare in tempo la lettera al sig. direttore dell'Ospedale. Potei baciare più di una volta, nel dì appresso il corpo il corpo d'Enrico nostro; raccomandai caldamente sia ben segnata la tomba sua e quella del carissimo Mantovani, pure disgraziatamente perduto (....) Qui all'Ospedale siamo in 7 ben trattati davvero (...) Io te l'assicuro fermamente, fisicamente sto già assai meglio, e se vedi questi caratteri un po' malsicuri devi attribuirli ad un patereccio che mi minaccia il medio della mano destra. Nel morale te lo lascio pensare; il mio Enrico insanguinato ho sempre davanti agli occhi; del continuo poi son molestato dal pensiero di Mammina e di voi martirizzati dalla tremenda notizia. Corri a Mammina, per carità." In seguito scrisse anche a Benedetto il 3 novembre e a Mamma Adelaide il 7, dando prova di grande forza d'animo e di elevati sentimenti di patriottismo. Enrico Cairoli ebbe virtù di capitano che non furono abbastanza notate. Uno dei militi di Villa Glori, G. Tabacchi, capo della prima sezione, il 13 maggio del 1883, quando si preparava l'inaugurazione a Roma del monumento ai fratelli Cairoli, scrivendo a Benedetto esprimeva il desiderio che si rilevasse codesta virtù di Enrico, perché questi "che fu così intelligente, non passasse semplicemente per un ardito. - Caro mio, mi diceva il nostro Enrico, inutile guerreggiare in aperta campagna; inutile e facile: i Papalini sentono che fin che hanno Roma nulla hanno perduto; il territorio invaso sarà sgombro per l'intervento straniero - diplomatico o materiale - immancabile se Roma non è subito nostra." da qui il bisogno d'introdurre forze in Roma, e quindi naturale la spedizione dei settanta fermatisi per mancanza di comunicazioni coll'interno ai Parioli, dove Enrico "piglia posizione in faccia a tutta la guarnigione di Roma, risoluto a battersi se attaccato, deliberato (mi diceva lui che da buon soldato anche non difettava di prudenza) a ritirarsi al sopraggiungere della notte, se non fosse stato molestato; lo fu, e colla nobilissima vita consacrò la serietà de' suoi propositi. Il nemico sgomberò il terreno, i suoi pernottarono sul campo; raccolsero i morti ed i feriti, lasciarono alcuni amici a loro custodia e in piccoli drappelli si restituirono al proprio campo. Può essere più poetico limitarsi esclusivamente a parlare del sacrificio, ma trovo più giusto verso la storia e verso l'estinto narrare come le sue virtù fossero governate dal senno, dallo studio e dalla meditazione." (citazioni tratte dalla lettera del Tabacchi scritta da Mirandola il 13 maggio 1883 e conservata nell'Archivio Cairoli). Tornando al discorso precedente il 27 novembre fu concesso il trasporto delle salme di Enrico Cairoli, di Antonio Mantovani e di Giuseppe Moruzzi. Invece Giovanni dovette restare ancora alle Carceri Nuove, assistito tra gli altri da Mons. Stonor che mandò a Mamma Cairoli notizie del figlio e spiega i motivi che ne ritardano la liberazione (Giovanni trovava ancora qualche difficoltà nel firmare la promessa, richiesta dal Governo Pontificio, che non avrebbe più fatto guerra contro la Santa Sede; in realtà Stonor non prevedeva che il giorno seguente Giovanni sarebbe stato liberato dopo aver ricevuto soltanto un'intimazione a non tornare più nello Stato Pontificio. Poco dopo si verificò la morte di Giovanni che dette luogo a manifestazioni di condoglianza spesso congiunte a dichiarazioni politiche. Mazzini scrisse a Donna Adelaide una delle sue più belle lettere che fece commuovere la pur forte Madre. Maurizio Quadrio tanto più si duole della morte di Giovanni in quanto aveva creduto che egli "fosse destinato a compiere nel gran dramma italiano una parte non solamente da prode come i suoi fratelli, ma preminente e decisiva." Altri invece inviarono condoglianze uniti ad inni di gloria che troveranno la più alta espressione nel canto "In morte di Giovanni Cairoli" col quale il Carducci "mandò alla sua tomba omaggio di fiori, che non perdono profumo." Degne di menzione sono anche le incisioni sui sepolcri dei due fratelli; su quello di Enrico così si legge: "Enrico Cairoli - d'anni 27, medico-chirurgo, martire della Patria - Degno dell'antica auspice della futura Italia - Cacciatore delle Alpi a Varese, uno dei Mille a Marsala - In Palermo alla fronte impavida, serena - Ferito quasi a morte - Sui monti del Tirolo nel 1866 Maggiore prode, perspicace - Nel 23 ottobre 1867 - A Monte S. Giuliano comandante in capo - Contro i mercenari del Papa re. Eroe Semplice Sublime - Primo dei Settanta di Villa Glori - Cadde... risorge... nella seconda vita - Ernesto Luigi Enrico - Si strinsero in un bacio, a Italia, a Roma, benedicendo - Garibaldi a Monte Rotondo proclamava all'Europa - Il Leonida dei... settanta" nell'oratorio di Gropello Giovanni Cairoli è ricordato con questa iscrizione: "Giovanni Cairoli - Con eletto ingegno, con indefesso proposito - Studiò matematiche a Pavia, a Torino. Nel 1859, sedicenne intollerante d'austriaco insultò imprigionato - Tenente nel 1866, poi capitano del primo reggimento di artiglieria - Severo contro se stesso, amoroso prediletto - A Villa Glori nel 23 ottobre 1867 - Colpito alla testa da piombo pontificio, da baionette - Confortava quasi esangue il suo morente Enrico - Dall'ospedale di Roma gettato nelle segrete - Reduce a Pavia fu magistrato municipale - Per alte virtù di cuore, d'intelletto da tutti ammirato - Nell'11 settembre 1869 - Varcati appena cinque lustri, dopo otto mesi di patimenti - Spartanamente sofferti - Per ferita all'osso nella regione iliaca - Alla madre, al fratello, cui mesto dal cristiano sguardo sorrideva - Italia, Garibaldi, Enrico, vittoria in Roma - Sante delizie della sua fede estreme. Addio."
Alessandro Bardanzellu IIB
Flavia Ricordy IIB